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Mi aveva attratto il titolo 12.corso polonia ma non lo avevo capito. Allora per saperne di più sono andata sul sito http://www.istitutopolacco.it/index.php?mod=2 e ho scoperto che la Polonia quest’anno festeggia un grande appuntamento: il 4 giugno 1989 ci furono le prime elezioni libere che decretarono la fine della sottomissione all’URSS. A novembre ci sarebbe stato il crollo del muro di Berlino e da lì la fine della separazione con l’ Europa dell’Est. Sono passati 25 anni e vale la pena festeggiarli con loro. Incredibile coincidenza: avevo appena conosciuto una ragazza polacca Justyna Kaminska che ha trascorso due mesi a ROma per conoscere meglio Urban Experience. Mi aveva emozionato sentirle raccontare che sua madre, prima che lei nascesse, osservava dalla finestra i carriarmati inviati da Jaruzelsky per le strade di Postdam a reprimere la rivolta di SOlidarnosc. Spinta anche da questa voglia di saperne di più ieri sera sono stata al Goethe Institute per ascoltare il pianista Leszek Mozdzer, uno degli appuntamenti per il Festival della cultura polacca. Eravamo pochissimi italiani. Peccato! perché è stato bello ascoltare il virtuoso del pianoforte mentre giocava giocato con Chopin e Bach usando il pianoforte a coda e tanti marchingegni introdotti per creare i suoi “effetti speciali”. fantastici e Gratis!
Giovedì 27 febbraio 2014
Da quando ho deciso di scrivere il giovedì per il mio diario di nonna moderna, faccio molto caso a cosa mi capita il giovedì. Non so perché, ma questo è. E giovedì 27 febbraio non si è smentito. La mia amica artista Daniela Monaci mi ha proposto di andare con lei alla Galleria La Nuova Pesa in via del Corso 530. “Sono assetata di arte, vengo volentieri. Qualsiasi cosa ci sia mi sta bene”, le ho risposto. E non sono rimasta delusa. Quel giorno nella galleria, una pietra miliare nelle gallerie romane (ma io non lo sapevo, il mio alibi: essere a Roma da pochi anni) si svolgeva un evento particolare: la realizzazione dal vivo di un numero della rivista d’arte. Idea bellissima: anziché un numero stampato, un numero vivo e Viva, appunto, l’hanno chiamata. Una rivista in carne e ossa, con temi ogni volta diversi ma dedicati al corpo. Con l’ artista pittore che fa circolare un pezzo della sua opera (dedicata ai morti antifascisti questa di Barruchello), con poeti e scrittori che leggono brani di letteratura e poesie scelti tra tanti scritti da altri o da se stessi a comporre il numero di questo giovedì. Dedicato al sangue. Prossimo appuntamento: venerdì 14 marzo.
https://www.facebook.com/VivaUnaRivistaInCarneEOssa
Giovedì 13 febbraio 2014
Quanto sono importanti gli incontri casuali quando non si è più giovani? Tantissimo per me che amo parlare con gli sconosciuti mentre vago per la città alla ricerca di non so cosa. Non sono l’unica. Perché mi sono accorta che i miei anonimi interlocutori oggi mi rispondono, mentre quando ero più giovane non sembravano apprezzare la sconosciuta che rivolgeva loro la parola. E’ per questo che quando ci si siede sulla panchina di un parco, l’anziano o anziana ci parlano del tempo o di un altro pretesto qualsiasi? Meglio rispondere, non si sa mai che bella conversazione possa scaturire. .
E’ capitato così che ho conosciuto Amalia Corrà, alla fermata dell’autobus mentre aspettavamo l’85 che ci portasse in centro in un piovoso pomeriggio di gennaio a Roma. Le chiedo da quanto tempo era in attesa e subito la conversazione si è animata al punto che ho deciso di fare il viaggio in bus con lei fino alla sua fermata. Avevamo ovviamente molte cose in comune. Abbiamo parlato di città, di quelle ortogonali e facili da girare, di quelle tortuose cresciute senza un pensiero. E abbiamo parlato di lingua greca moderna. Perché lei docente di Bizantino all’Università di Padova aveva insegnato in Grecia proprio il Demotico, a metà tra il greco volgare e il turco della dominazione. E com’è che io lo conoscevo? Ma perché era stata la mia grande passione quando scrivevo di isole greche. Così ho potuto raccontarle della Tigre in vetrina, libro poco conosciuto in Italia ma letto da tutti i bambini alle scuole elementari in Grecia proprio per conoscere il periodo della dittatura dei colonnelli.. E abbiamo parlato dei sonetti medievali italiani e dell’insolito da vedere a Roma come il Casino di caccia di Aurora Pallavicini da andare a visitare solo il primo del mese e abbiamo parlato di tanto ancora, fin quasi ad abbracciarci quando ci siamo salutate al capolinea dicendoci arrivederci per una passeggiata al Paseo di Madrid dove lei attualmente vive con sua sorella. “Non è vero”, ci siamo dette, “quello che ci hanno insegnato: il silenzio non è d’oro, il silenzio appiattisce i cervelli”. Altra scoperta dell’età avanzata!
Il termine non l’ho inventato io ma Gilles Clément, botanico paesaggista francese. Ma tra tutti gli aggettivi che caratterizzano le piante che crescono spontanee e sfidano colate di asfalto, muretti di cemento, reti di recinzione, questo mi sembra il più bello. Piante vagabonde sono quelle che sfidano i confini geografici che delimitano i giardini ma anche i continenti e, magari portate dal vento, hanno trovato il luogo ideale per crescere tra le grate arrugginite di una finestra o ai piedi di una doccia nella sabbia di una spiaggia.
Da quando uso questo termine Cosimo e Jacopo, i miei nipotini di 10 e 8 anni, sono ancora più interessati a guardare le piante che incontriamo nelle nostre esplorazioni del territorio. Perché le piante vagabonde hanno il fascino dell’avventura. E fanno viaggiare la fantasia ad immaginare come quella specie di cocumeracea che sta crescendo con le sue foglie rigogliose sulla sabbia abbia affrontato spostamenti casuali. Magari c’è finita semplicemente con lo sputacchio dei suoi semi dalla bocca di chi stava mangiando una fetta di anguria o forse è rotolata da un camion che la stava trasportando al chiosco della rotonda o forse è arrivata dal mare cullata dalle onde di un giorno di tempesta … E ci domandiamo come abbia trovato la forza di germogliare e come possiamo fare per proteggerla. Ma anche a noi veri amanti dell’avventura piace pensare che ce la farà da sola. E la incoraggiamo a farcela dandole un po’ di acqua dolce prima di salutarla.
L’estate sta finendo, sono tornata alla base e già la casa mi sta stretta. Ho una gran voglia di conoscere le tante realtà ancora disseminate sul territorio, in città e fuori. Eccone due vissute nel giro di pochi giorni: Il gusto della memoria, presentato al Circolo degli artisti di Roma e Il festival delle storie che si è svolto tra i paesi della Valle di Comino. Mi piace raccontarli insieme perché trattano entrambi di vicende personali, reali il primo, letterarie il secondo.
Il gusto della memoria, alla sua seconda edizione a Bracciano, è un concorso che premia chi produce un lungometraggio utilizzando per più di metà del prodotto materiale di archivio, pellicole in vari formati raccolte da tutto il mondo e conservate nell’Archivio storico di www.nosarchives.com. Ecco allora immagini di villeggiature sui lidi italiani, caccia alle renne in Norvegia, soldati al fronte, navi in fase di costruzione. Persone, luoghi, eventi reali ripresi con lo sguardo dell’esploratore e con macchine sofisticate per l’epoca ma primitive per noi oggi, malati di tecnologie.
Il festival delle storie è ormai alla sua ultima tappa (dal 23 al 31 agosto) quando lo raggiungo nel paese di Casalvieri, un’occasione per me di conoscere i paesi del Frosinate (www.festivaldellestorie.org). Due ore di viaggio da Roma. Mi domando se vale la pena, guidando col cielo plumbeo e qualche goccia di pioggia che cade. Ne vale la pena mi rispondo vedendo già che la gente sorride e saluta chi arriva ed è chiaramente uno straniero. E gli incontri con le storie letterarie raccontate dagli autori e le persone reali me lo confermano. In piazza e altrove. Come nella cena all’Osteria del tempo perso quando l’oste, appassionato cultore della sua terra, tra portate fatte secondo la ricetta della nonna, ci racconta di come il cabernet sia arrivato nella zona nel 1821 con i Francesi che volevano europeizzare il territorio dei Borboni. O ascoltando Marco Baliani che ci parla del suo romanzo L’occasione con i personaggi che hanno il nome degli evangelisti e delle nuove battaglie collettive dei giovani impegnati nella difesa dell’ambiente o nelle missioni umanitarie. O sentendo la splendida voce di Alessandra Parisi che canta il suo modo di vedere la vita intervallandosi con chi legge e parla di ciò che ha scritto. Gli appuntamenti sono tanti. Intorno tante persone del posto, anziani e giovani. C’è chi non riesce a star fermo, c’è chi mangia, c’è chi parla, ma ci sono tanti che ascoltano e applaudono. Le storie si accavallano. Le parole viaggiano e, complice la notte, si ha il tempo di raccontarsi la propria storia.
“E’ primavera, svegliatevi bambine. Alle Cascine il primo sole fa il rubacuor!”. Cantava così la nonna Amalia, nata settimina nel 1889, che aveva allevato sette figli facendo la lavandaia. Ecco perché tutti la chiamavano la Marescialla, si era indurita e aveva preso un piglio da autoritaria. Ma quando nell’aria arrivava l’odore e il calore di marzo, si metteva a cantare. Unica concessione al suo sguardo duro. Io mi divertivo da matti con lei a cantare, complici della trasgressione primaverile che invitava a lasciarsi andare. Quando ero bambina avevo una casa su un albero e un giardino intorno. Poi i tempi sono cambiati, le città hanno stritolato il verde della campagna, o meglio lo hanno inglobato se non annullato tra le costruzioni. Dicono sia colpa dell’introduzione del cemento armato che ha spinto a costruire palazzi alti. Sarà, ma la voglia di alberi, di prati, di fiori è sempre più forte perché se ne sente il desiderio, il bisogno, per vivere meglio . Ecco perché nelle città sono nate tante iniziative dette di giardinaggio sovversivo: si adottano aiuole, si fanno bombe di semi, si circondano gli alberi che rischiano di essere potati alle radici, ci si ritrova nei cortili e li si coltiva a orti . E io, che non ho più un giardino né un orto sento, che è tempo di seminare .
Me lo ricorda il web con i messaggi dai vari giardinieri sparsi in tutta Italia. Allora seguo il consiglio delle Lezioni di giardinaggio Planetario avuto in una giornata d’inverno nel bel mezzo di uno spettacolo teatrale: giro con semi di girasole e semi di zucca in tasca e li sparpaglio ovunque io veda un poco di terra o una breccia dentro un muro.
Proprio oggi, 21 marzo, primo giorno di primavera.
Contatto e ascolto. Queste le parole chiave per entrare nell’ installazione multimediale “Portatori di storie” realizzata da Studio Azzurro nell’ex manicomio di Roma. E’ il punto finale di una lettura multimediale fatta con l’enorme archivio conservato dentro il Santa Maria della Pietà. Cartelle cliniche, diagnosi, terapie, che descrivono la storia delle persone recluse, a volte per tutto l’arco della propria vita, nei padiglioni con parco botanico a nord di Roma. Si prova quasi un senso di libertà osservando la ricchezza degli alberi, nostrani come le querce o importati come le sequoie, piantati spesso dagli infermieri e dai pazienti negli ettari di terreno dell’istituto considerato nel secolo scorso all’avanguardia. Si prova molta della sofferenza dei cosiddetti malati di mente, entrando nell’ex padiglione, un tempo usato per gli internati, dove si trova il Museo della mente. Le installazioni spingono a mettersi al posto dei malati, a sentire le loro voci, a provare le loro ossessioni. Poi si raggiunge “Portatori di storie” dove le persone emergono dall’ ombra e si mostrano in primo piano. Aspettano il tocco di una mano e di essere accompagnati ad un punto dove si mettono in attesa di essere ascoltati. Tutto questo genera un’emozione fisica che non lascia indifferenti. Così non lascia indifferenti sapere quante cose in realtà fa la Sanità Pubblica, quella sana.
Quando si parla di nonni e nipoti il quadretto familiare manda immagini di consueta vita quotidiana: torte cucinate insieme, ore trascorse al parco in attesa del ritorno dei genitori, lunghe giornate passate a casa da scuola perché ammalati. E magari i ricordi si materializzano in foto ricordo che danno sapore all’intimità delle immagini o odore di antico alle pagine di diario recuperate in un cassetto di casa. Anche questo è bello e desiderabile e parlarne regala ai non più giovani bei ricordi. Ma può capitare, in questi anni in cui si parla tanto di “invecchiamento attivo”, di intercettare momenti in cui i nonni raccontano esperienze di giochi e luoghi e momenti memorabili della loro gioventù per inserirli in una mappa interattiva in modo da incuriosire chi oggi è bambino munito di smart phone.
Le reazioni a questo insolito incontro tra generazioni sono disparate ma tutti scoprono una loro personale partecipazione. C’è chi si mette in ascolto, chi parte con nuovi racconti, chi viene sollecitato in fantasie inaspettate. Mi è capitato da poco di partecipare ad alcuni di questi momenti chiamati non a caso Teatri della memoria (organizzati da Urban Experience nel XIX Municipio di Roma) perché ognuno ha partecipato in prima persona mettendo in scena la propria storia, con gli anziani che raccontavano e i bambini che ascoltavano, esplorando il quartiere e giocando con le mappe. Tutto questo ha poi trovato un pubblico anche in rete, vicino e lontano, per azionare la mappa del territorio, riempita di storie, con un clic.
Sarà che ci sono andata con la classe (una terza elementare) del mio nipotino Cosimo, ma il riferimento ad Harry Potter e alla biblioteca della scuola di magia Hogwart è stato immediato. La Biblioteca Casanatense, pubblica dal 1701, mi ha prodotto un tuffo al cuore da tanto che è bella. Tutto quello che ci si immagina delle biblioteche antiche: uno stanzone enorme con alti finestroni, scaffali alle pareti fino al soffitto, un enorme “mappamondo” e un altrettanto gigantesco “mappa cielo”, ai lati estremi due scale a spirale di legno per accedere ai piani alti. Tutto a vista, tutto protetto sotto teche di vetro perché i libri lì custoditi sono antichi e antichissimi. Volumi donati per testamento dal cardinale Girolamo Casanate ai padri domenicani di Santa Maria della Minerva nel 1698 con la precisa disposizione che venisse fondata una biblioteca aperta al pubblico. Così è da allora e non resta che visitarla, in orario di biblioteca naturalmente.
Ho sempre amato viaggiare. Ho smesso di farlo quando in Grecia, dove sono andata ogni estate per circa dieci anni, mi sono sentita chiamare turista. Non ero più una viaggiatrice agli occhi della gente del posto. Loro d’altronde avevano smesso di preparare la colazione con miele e feta e olive ma la offrivano in quelle orribili vaschette monodose di marmellata accompagnate da pane surgelato. Cibo igienico ma decisamente senza atmosfera. Le cose sono cambiate. Tutto il mondo è diventato accessibile. I viaggiatori sono diventati, appunto, turisti che macinano tour di una settimana passando da un continente all’altro. E per un po’ non ho viaggiato se non in Italia. Però viaggiando mi rilassavo molto, sopratutto quando mi spostavo senza un’idea prefissata sui tempi e i luoghi. Potevo rimanere uno o più giorni, neppure io lo sapevo. Mi piaceva non organizzare troppo neppure le mete. Con questo spirito ho fatto magnifici viaggi che mi hanno arricchito e dato molta fiducia in me stessa.