La bancarella di frutta e verdura di via Verbania sembra un residuato bellico. In effetti qui una volta c’era un mercato quotidiano lungo tutta la strada. Ci passo davanti quasi tutti i giorni andando verso la casa dei miei nipotini e osservo con curiosità ma anche un senso di leggero disgusto quell’unica bancarella che accende la luce quando fa buio e viene chiusa dopo una bella pulizia del marciapiede. Ma io vedo sopratutto che cosa ha intorno, il grosso edificio STA (ovvero un deposito autobus enorme, ancora vigilato da custodi ma inutilizzato), i due alberi spuntati dal marciapiede che sembrano un inno alla sopravvivenza del mondo vegetale, e intorno alla bancarella tante macchine ben parcheggiate ma troppe per i miei gusti di pedone con bambini al seguito. E poi in via Verbania tira sempre un vento gelido che si infila lì non so perché prima di lanciarsi sulla via Tuscolana. Eppure davanti alla bancarella di Shamin e Jacqui due fratelli dal Bangladesh, c’è sempre un sacco di gente italiana che aspetta di comprare. Loro sono di poche parole gentili ma quando aprono bocca si esprimono con una tale simpatia chiamando per nome i clienti, che mi invogliano a fermarmi per comprare. Niente, ogni volta, ho una scusa diversa. Sono troppo lenti, fa troppo freddo, torno più tardi, ripasso sta sera. Sempre un po’ stizzita io, osservata dagli altri clienti pazienti e in fila come la stressata da supermercato sempre di fretta che vuole scavalcare la fila per farsi servire per prima. E ogni volta sbircio la bancarella, la verdura capata, i carciofi puliti tenuti in acqua e limone, il pane fresco tagliato e impacchettato, la fila di uova, patate e cipolle di vari prezzi, la frutta ben allineata, il contenitore del minestrone e quello dell’insalata mista che loro preparano continuamente, con le mani sempre protette dai guanti usa e getta. Li ascolto dare consigli, prendi quei pomodori che maturano sulla pianta, le carote col ciuffo sono del contadino.. Ma ogni volta scappo via sempre un po’ diffidente.
Finché un giorno passando con la nipotina piccola addormentata nel passeggino, mi fermo per comprare banane e dico “ma che freddo fa qui!”. “Prendi lo zenzero e bevilo con acqua calda”, sentenzia Shamin con il suo tono gentile e gli occhi sorridenti “noi nel nostro paese lo mettiamo sempre”. “Ma noi chi, non è cinese lo zenzero?” ribatto io un po’ antipatichina. E lì parte la voce sapiente di Shamin a dire che loro, in Bangladesh dove vivono, lo zenzero lo coltivano ovunque anche in montagna e lo usano in tutto, verdure, pollo, riso, minestre, infusi. E che la pianta fuori sembra paglia e solo la radice viene usata. Mamma mia quanto sono ignorante, mi sono detta pensando distrattamente che Bangladesh e Cina sono Asia. A casa vado a leggere e mi documento e scopro che lo zenzero è una delle spezie più antiche, presente nel commercio con l’Oriente fin dal Medioevo quando è stata il vero rimedio contro la peste nera. Lo nomina anche Dioscoride il greco che assegna il merito di averlo fatto arrivare in Europa ai mercanti arabi, ma è proprio Marco Polo a descrivere lo zenzero nei dettagli, dalla coltivazione all’uso alimentare. Un bel giro insomma.
E con lo zenzero ho preso fiducia in Shamin, una vera scoperta perché parla italiano disinvolto, capisce l’ironia dei romani, e sopratutto sa fare il suo mestiere di fruttivendolo perché, una volta arrivato in Italia 15 anni fa, ha lavorato in campagna, imparato a coltivare e raccogliere e ora vende sopratutto prodotti agricoli locali. “Ma che ci fai in Italia, Shamin?” gli chiedo un giorno. “Voglio costruire la casa nel mio paese”. “Pensi di tornare lì?”. Sorride guardando la moglie, minuscola e vestita con l’abito bangla.
pubblicato su Mondita